In questi anni ho avuto modo di incontrare diversi professionisti, uomini e donne, che occupano posti di potere e di rappresentanza. In mano hanno le sorti di altre persone e possibilità decisionali, spesso anche economiche, non da poco. Eppure sono davvero pochi quelli che possono vantare una vera leadership.
I più sono invischiati in beghe di poco o nullo conto, sensibili a voci di corridoio completamente prive di substrato, impelagati in competizioni senza senso, manipolazioni che sviliscono e impoveriscono e in giudizi che poco hanno a che fare con la capacità di ascolto, rispetto e autocritica che un leader dovrebbe conoscere e praticare.
Vengono spudoratamente meno a credi che affermano di praticare ed è evidente che quanto dicono di fare non è in accordo con ciò che davvero pensano, realizzano e sono.
Perché tutto questo, che senso ha e da dove nasce?
Spesso e volentieri questa modalità ha due binari sui quali viaggia e da lungo tempo: il riconoscimento e la fatica. Dati necessari per lo sviluppo armonioso del bambino, che però spesso e volentieri si perdono nelle aspettative familiari. A quale prezzo psicologico, infatti, si ottiene un “bravo bambino”? Per Alice Miller, psicologa e psicoanalista svizzera, il dramma del “bambino dotato” – il bambino che è l’orgoglio dei suoi genitori – ha origine nella sua capacità di cogliere i bisogni inconsci dei genitori e di adattarvisi, facendo tacere i suoi sentimenti più spontanei – rabbia, paura, invidia, indignazione – perché inaccettabili a “grandi” che gli sono intorno. Così viene soffocato lo sviluppo della personalità più autentica e il bambino diventerà, probabilmente, un adulto che soffrirà di insicurezza affettiva e di una sorta di impoverimento psichico. Depresso oppure nascosto dietro una facciata di grandiosità. Tantissimi gli esempi che evidenziano la sofferenza inespressa di questi bambini e la difficoltà dei genitori di accoglierli e di essere davvero disponibili.
In cambio il “bravo bambino” sarà invaso da eccessive lodi, semplicemente quando non darà fastidio o se produrrà i risultati attesi. Poco importeranno i reali sforzi o l’effettivo impegno. Questo contribuirà a fare apprezzare loro il giudizio sull’esito, piuttosto che il processo evolutivo, allontanandoli da una guida interna, da autostima e dalla gioia nel lavorare sulle cose.
Dire ad un bambino che dipinge un disegno non particolarmente invitante “Sei un artista veramente straordinario!” creerà attese sui risultati e difficoltà ad accettare il proprio limite. Domandargli, invece: “cos’hai pensato mentre lo dipingevi?” o “perché hai scelto questi colori?” o semplicemente “grazie”» lo aiuterà a focalizzarsi sul processo, usando un linguaggio valutativo ed emozionale e a relativizzare l’esito di un gioco o un compito, in funzione di un percorso.
Questo meccanismo dei “sì, a patto che…” contribuirà a creare un adulto sensibile all’approvazione, al riconoscimento privo di autocritica e incapace di dire dei no assertivi, che peraltro per noncuranza o per calcolo non ha ricevuto.
Sembra così ovvio che si può dire di no, eppure l’opinione più comune è che si debba dire di sì: a persone malfidate, a lavori malfatti, a situazioni ingiuste e a chi sa utilizzare forza e parole vuote. Esiste una tacita regola secondo cui le persone gentili, ammodo educate e premurose non dicono di no. È una regola presente in tutti gli aspetti dell’esistenza, dall’intimità della casa alla sfera pubblica. E così perdiamo la nostra credibilità come persone, innanzitutto di fronte a noi stesse, nel momento in cui affermiamo ciò che non pensiamo e togliamo all’altro la possibilità di una sana e propositiva autocritica. Oltre a investire tempo ed energie in comunicazioni per niente nutrienti.
La leadership autorevole si gioca qui la sua credibilità: nell’umiltà dell’imperfezione e nella capacità di apprendere da sè stessa, attraverso una sana autocritica e l’accettazione delle valutazioni altrui.