IL DOLORE, IL PIACERE E LA FELICITA’

CRONACA DI UNA STABILITA’

 

Che cosa ci impedisce di cambiare laddove abbiamo resistenze che ci trattengono? Perché è così difficile?

 

Spesso è proprio il dolore che riesce a contrapporsi all’inerzia che ci blocca.

 

Giriamo a vuoto dentro di noi, finché una sofferenza acuta, una situazione intollerabile ci spinge a muoverci. In realtà, prima che arrivi il malessere, l’inconscio ci manda moltissimi segnali, ma non sempre abbiamo la voglia e la capacità di ascoltarli.

 

La conseguenza, allora, è che solo un sintomo molto forte ci costringe a fermarci e a prendere in considerazione qualcosa che abbiamo dimenticato e non ascoltato di noi stessi. Quindi è un cambiare per allontanarci dal dolore, che il più delle volte ha la connotazione dell’urgenza e dell’emergenza.

 

Abbiamo un Parlamento al nostro interno, con un’ala progressista che tende al nuovo ed una conservatrice affezionata alla situazione in cui si trova.

 

Quasi sempre tendiamo a identificarci con la parte progressista e a trascurare la conservatrice, che ha i suoi motivi per restare dove si trova! Il fatto di non ascoltare quest’ultima, e quindi tutte le esigenze interne, è il motivo per cui non riusciamo a cambiare.

 

Quando lo facciamo affrontando gli aspetti conservatori, infatti, smettiamo di sottovalutarne i motivi, li osserviamo e li comprendiamo e questo, apre in modo naturale e senza sforzo, lo spazio al cambiamento.

 

Il cambiamento può partire anche dalla superficie, esplorando il proprio potenziale di bellezza, mettendo al centro noi stessi, lasciando andare ideali che non ci corrispondono più o del tutto. La bellezza ha bisogno di armonia, di integrazione tra segni interni e segni esterni. In questo lavoro c’è un aspetto giocoso, perchè può essere piacevole trovare altre facce di noi, anche se mutare i gesti che facciamo ogni mattina davanti allo specchio non è così facile.

 

Il nostro cervello è plastico e le nostre strutture nervose si modificano a seconda degli stimoli, anche ambientali. Siamo quindi programmati per evolvere e crescere più che per sprofondare in poltrona depressi.

 

E anche il linguaggio in questo fa la sua parte e non è da poco! Il raccontarsi storie restando in situazioni faticose, noiose, ma comunque comode; il lamentarsi rafforzando quei circuiti che ci mantengono nello stato di sofferenza e obbligarsi alla parola “devo”, ci impediscono la realizzazione di ogni progetto.

 

Siamo un po’ tutti vittime dell’inquietudine che ci spinge a consumare benessere, lontani dal trarne piacere.

 

La felicità è anzitutto in noi stessi, in un’alleanza che dura e avanza non invecchiando, ma generando futuro: una scoperta inesauribile da perfezionare day by day attinente al nostro presente, che non è l’istante, ma il circostante.

 

E’ legata allo sviluppo, all’espansione e al movimento verso la nostra realizzazione e non potrà mai essere uno stato definitivo. Spesso la confondiamo con attimi di eccezionalità, pretendendo costantemente l’acme e non riconoscendole la caratteristica di grazia o di dono.

 

E’ invece una dimensione che ha a che fare con noi, di armonia con il mondo, uno stato di grazia che ci spiazza, perché accade e basta. Diventando un timbro dell’esistenza, che ci regala disponibilità e curiosità e ci garantisce l’incontro con la bellezza. Ed è, con il dolore, la più intima delle esperienze.

 

Chi la raggiunge ha nei confronti della vita un atteggiamento di semplicità, di lievità e la capacità di saper dire “Sto bene”. Il “sono felice” è il passo successivo.